A.
Nicolò mi chiamò martedì pomeriggio. Quando vidi il suo nome apparire sullo schermo del cellulare mi stupii, ma risposi subito. Fu una chiacchierata rapida in cui mi spiegò ciò che mio padre mi aveva già accennato, con mezze parole. Era da poco che Nicolò tornava a casa nei weekend, dopo intere settimane trascorse al centro di disintossicazione. Tutto procedeva al meglio, c'era la volontà e c'erano i risultati. C'era anche il dolore, ma Nicolò cercava di combatterlo in tutti i modi, e non era solo. L'aiuto di cui aveva bisogno era ancora tanto, ed ora stava chiamando me poiché aveva bisogno anche del mio. Perché potesse tornare del tutto alla sua vita di sempre, i passi da fare erano piccoli, le gocce andavano prese poche alla volta. Era arrivato ad un punto in cui il centro gli permetteva il reinserimento sociale, con l'aiuto della famiglia e di persone fidate. E qui entro in gioco io, con i miei amici. Nicolò sa che siamo gente apposto, gente tranquilla, gentile e affidabile. Mi ha un po' sorpreso che abbia pensato a noi, ma non per questo non mi ha fatto piacere. Anzi, tutto il contrario. Lo conoscevo da sempre, sapevo ciò che aveva passato e ciò che stava tuttora passando, e volevo aiutarlo, con tutto il cuore. Ci accordammo per passare insieme la giornata di sabato, mattina, pomeriggio e sera, definendo orari e luoghi e compagnia precisi. Chiusi la chiamata sovrappensiero per la grande responsabilità che mi ero preso, ma contento di fare qualcosa col cuore, per un amico. Un gesto di disponibilità e affetto totalmente disinteressato.
E.
Arrivai al bar che erano quasi le 18. C'erano quasi tutti, con quel Nicolò di cui A. ci aveva parlato. Ci aveva riuniti una sera per informarci della situazione, parlando chiaramente di ciò che era successo, della caduta di Nicolò nella droga pesante, del suo baratro e del suo attuale tentativo di recupero e di ritorno alla vita. Non di certo mi fece piacere sentire tutto ciò, e nonostante non lo conoscessi se non di vista, personalmente acconsentii subito ad accoglierlo con noi. Era una persona che aveva bisogno di aiuto, una brava persona che aveva commesso un errore, ma che ora stava facendo di tutto per ripararlo. Necessitava semplicemente di qualcuno che lo accompagnasse in questo. A. ci teneva tanto e nessuno di noi si oppose.
Fu così che stemmo insieme quel pomeriggio e poi anche la sera. Passeggiammo lungo le vie del paese, ci sedemmo a chiacchierare lungo i muretti e imparammo anche a conoscerci. Nicolò non era un tipo estroverso, ma bastava dargli una piccola "spinta" e il ghiaccio era rotto. Si trovava a suo agio e ciò mi recava sollievo. Lui mi piaceva. Non so perché, ma era come se mi ci sentissi in sintonia. Provavo a immaginare ciò che aveva passato, ciò che stava passando, lui, ma anche la sua famiglia e tutti i suoi cari. Mentre camminavamo tanta gente che lo vedeva gli veniva incontro a salutarlo con gioia e con tanti sorrisi. Non potevo capire ciò che provava Nicolò, ma potevo capire ciò che provava quella gente, perché lo provavo anch'io, nonostante fosse la prima volta che ci parlassi e che ci uscissi insieme. Sentivo, percepivo la sua richiesta d'aiuto, e volevo fare tutto per dargliela.
L.
Stavamo passeggiando lungo il corso. Io e mio marito eravamo pensierosi, ma non preoccupati. Conoscevamo A. e la sua famiglia da tanto e sapevamo che i suoi amici erano persone apposto, senza grilli per la testa. Eravamo contenti che Nicolò avesse scelto loro. Li vedemmo la sera fra la gente e la musica, seduti su un muretto, a chiacchierare e scherzare. Ci avvicinammo per salutarli. Mio marito si mise subito a scherzare con Nicolò e A.; io sorridevo, ero sollevata. Quei ragazzi erano così belli, così sinceri. Probabilmente non avrebbero mai avuto il problema che ha avuto Nicolò. Sapevo che erano le persone migliori con cui Nicolò potesse uscire, al momento. Lui, Nicolò, mi sorrise. «Ciao, ma'» mi disse, allegro e malinconico al contempo. Ma la lucentezza che aveva negli occhi quando lo disse... non gliela vedevo da fin troppo tempo. Troppo tempo passato a piangere, a urlare, a cercare di uscire dall'incubo. Troppo tempo rinchiusi nel nostro dolore, troppo tempo abbracciati io e mio marito guardando il letto di Nicolò vuoto, la casa vuota, il silenzio. Dopo tanto finalmente avevamo tutti ripreso a sorridere e a sperare. La luce alla fine del tunnel si vedeva e s'ingigantiva sempre di più.
«Ciao, tesoro mio.»
N.
Ora sì, che mi sentivo di nuovo libero.
Ora sì, che respiravo.
Ora sì, che vivevo.
E non sopravvivevo più.