Mi pare così assurdo che dopo tutto questo tempo senta ancora il bisogno di esternare ciò che ho dentro, di cacciare fuori, a volte forzatamente, a volte meno, quel "tumore" che si è avvinghiato al mio cuore, che si alterna tra lo stritolare dolorosamente e l'allentare illusoriamente. Penso: "Cazzo, ma non ce l'ho fatta l'abitudine?". Mi rispondo: "No, non ce l'ho fatta". E mi domando ancora: "E ce la farò mai?". E nuovamente mi rispondo: "No, non ce la farò mai". Cerco di comprendere perché non ce la farò mai. Perché credo che non ce ne sia bisogno? Perché non lo voglio? O perché, a doppio senso, non serve?
Comunque la rigiri, sono sempre allo stesso punto, allo stesso fottuto punto. Non mi sono mosso. Eppure sembrava che si stesse andando avanti, che si stessero facendo progressi, che qualcosa sarebbe potuta cambiare; che stesse cambiando. E invece no. Giù, faccia a terra, di colpo. Una volta. Una seconda volta. E sono ancora lì, non riesco ad alzarmi. Anzi, non voglio. Non voglio alzarmi perché non voglio ricadere. Così, in caso, non sentirei la botta. Semplicemente resterei lì disteso. C'è chi la chiama vigliaccheria, chi la chiama debolezza, chi paura. Io la chiamo stanchezza.
Perché sono stanco; stanco in ogni parte del corpo. Sono stanco di sentirmi dire sempre le stesse cose, sono stanco di ripetere ogni volta le stesse azioni, sono stanco di sentire sempre le stesse emozioni. Sono stanco di respirare il terrore che si cristallizza davanti ai miei occhi, sono stanco di palpare sul mio viso l'angoscia che mi sanguina dentro, sono stanco di percorrere quei corridoi, di vedere aprire quelle porte, di sentire quelle voci, di respirare quell'aria, dell'essere accecato da quella luce così asettica, così vuota, così odiosa. Sono stanco di tutto. Stanco di questi anni che incessantemente mi girano intorno e si ripetono, costantemente, ininterrottamente. Senza uno scopo. Vuoti, così maledettamente vuoti.
E poi dicono che c'è un senso, a tutto. Bene, trovami un senso a questo. Trovami, anzi, IL senso di tutto ciò, e vediamo cosa ne ricaviamo. Se ci riesci, ben venga, io non posso che giovarne. Ma se non ci riesci, e forse dentro di te lo sai, ma testardamente continui a predicare la tua filosofia del cazzo, ti meriti solo uno sputo in faccia. Perché se pensi che ci sia un senso, o cerchi in tutti i modi di trovarlo, e non ci riesci, e continui a dire che c'è, allora vuol dire che non sai. Che non sai cos'è, questo, che non sai cosa si prova, che non sai cosa significa. E non tentare di far finta di sapere. O di capire. Fino a quando non proverai tutto ciò che ho provato e provo io, esattamente allo stessissimo modo, tu non sai, tu non capisci. "E per tutti il dolore degli altri è dolore a metà", cantava Qualcuno. Purtroppo, è così. Siamo soli, ovunque, comunque, irrimediabilmente. Non è una condanna, ma semplicemente la natura dell'uomo, che molti ancora si ostinano a negare. Codardi. E pertanto sono solo anche in questo frangente. Soprattutto in questo frangente. E ciò non fa altro che forzare l'oppressione di quel "tumore".
Vivo in attesa, in una orribile, cruda, sprezzante attesa, e nella più totale ignoranza di ciò che quest'attesa mi porterà. E ho paura. Forte, fortissima, gigantesca.
Sono al capolinea. Ora vediamo se le porte del vagone si apriranno, o se mi toccherà ancora stare seduto, immobile, da solo, nell'oscurità di questo treno irto di spine.
Questa volta ho Paura...
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